È la
lingua che fa eguali, proprio per questo con gli studenti bisogna essere più
rigorosi.
Sono passati quasi quattro mesi
dall’appello di oltre 600 docenti universitari che chiedeva al Governo di
prendere provvedimenti «contro il declino dell’italiano a scuola». Una
situazione così preoccupante da costringere molte università a organizzare veri
e propri corsi di recupero per le matricole. Se ne è riparlato anche al liceo
Tasso di Roma, dove il Gruppo di Firenze, promotore dell’appello, ha convocato
un incontro dopo aver constatato il silenzio del Governo (ma, a dire il vero,
anche di tutte le opposizioni) su questo tema. Conforta tuttavia un invito di
queste ultimissime ore da parte della ministra Fedeli ad un incontro che
finalmente si spera possa contribuire a cambiare la didattica dell’italiano e,
speriamo, non solo di questo. Non si può comunque rinunciare a fare il
possibile per risollevare le sorti della nostra lingua: senza dover scomodare
Machiavelli o Manzoni, la stessa sopravvivenza della nostra identità culturale
trova i suoi punti di riferimento imprescindibili proprio nella correttezza e
nella proprietà del linguaggio scritto e parlato. All’incontro hanno
partecipato anche diversi autorevoli firmatari, che ancora una volta hanno
denunciato quanto poco ci si preoccupi per migliorare le sorti dell’Italiano.
In particolare si è sottolineato come da decenni il Ministero abbia rinunciato
al suo ruolo di orientamento, di sollecitazione e di verifica dei risultati
raggiunti, addossando in gran parte le responsabilità di tutti i fallimenti
della didattica alla inadeguatezza dei docenti e dei dirigenti. Le
responsabilità sono invece da ricercare innanzitutto in una direzione politica
che, per timore dell’impopolarità o per l’influsso di teorie pedagogiche
sbagliate, ha rinunciato a essere esigente sul raggiungimento degli obbiettivi
che rappresentano la base della nostra cultura, in primis quello dello scrivere
correttamente. Si è confermata anche l’opportunità di verificare l’adeguatezza
o meno delle Indicazioni nazionali che da anni hanno sostituito i tradizionali
e consolidati Programmi scolastici e di prendere tutti i concreti provvedimenti
per invertire la tendenza all’impoverimento della nostra lingua. È stato
opportunamente ricordato, a conferma di questa tendenza, che circa il 70% dei
docenti impegnati nei concorsi per entrare di ruolo non è stato ammesso alle
prove orali anche a causa della loro pessima conoscenza della lingua italiana.
Non meglio vanno in genere i concorsi per avvocati e per magistrati. Per questi
ultimi è addirittura capitato che proprio a causa degli errori madornali nell’italiano
la quantità degli ammessi agli orali sia stata più bassa dei posti messi a
concorso! Si deve inoltre aggiungere che da molto tempo gli addetti ai lavori
di Viale Trastevere si riconoscono in una certa pedagogia di ascendenza
sessantottina, che insiste nello sponsorizzare metodologie di apprendimento che
pretendono di non far durare fatica agli allievi, evitando il lavoro ripetitivo
e lo studio mnemonico, nonché minimizzando l’importanza dell’ortografia e della
sintassi soprattutto nella scuola di base; competenze che è poi difficile
recuperare negli altri cicli scolastici. Un insegnamento del genere facilita
l’esclusione sociale proprio di chi solo nella scuola, avendo retroterra
familiari culturalmente ed economicamente inadeguati, dovrebbe trovare quelle
competenze linguistiche indispensabili per acquisire la dignità di cittadino e
di persona aperta al dialogo. Come diceva qualcuno, è proprio vero che è solo
la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione
altrui. Che sia ricco o povero. Ma i sopravvissuti al ‘68 e i loro eredi sono
troppo accecati dalle loro certezze per accorgersi che una scuola che non
prepara, soprattutto nelle competenze linguistiche, è una vera e propria scuola
di classe. Esattamente quella che non vogliamo e che non vuole la nostra
Costituzione. E per questo, proprio per questo molti di noi, di sicuro chi
scrive, hanno scelto senza pentimenti la via dell’insegnamento.
Valerio Vagnoli
("Corriere Fiorentino", 31 maggio 2017)